La vita del creatore di una qualsiasi opera, e la sua personale evoluzione, sono sempre uno strumento indispensabile per meglio comprendere l’eredità che ci lascia. L’uomo, la sua opera, l’ambiente costituiscono infatti un’unità. Seguiamolo quindi, dai tavoli del suo angusto laboratorio londinese ai campi fioriti e ai boschi della sua amata terra d’origine: il Galles; dal suo brancolare nel buio, ai lampi intuitivi, fino ad una chiara visione, dalla cura medica dei sintomi alla vera guarigione, da una visione meccanicistica alla consapevolezza dell’essenza spirituale dell’uomo, che liberamente sceglie di incarnarsi per contribuire all’evoluzione del mondo.

Il cammino di Bach fu un cammino iniziatico. La sua ricerca fu un “odissea” che lo portò vicino alla morte e lo mise in contatto con gli antenati, i quali gli mostrarono la conoscenza.

Scrive la Scheffer: “Il vero guaritore, si tratti dello sciamano o della vecchia, saggia conoscitrice di erbe – va «nel profondo del bosco», per trovare il rimedio che guarisce. Questo è da intendere in senso metaforico; perché il più delle volte il guaritore, come Edward Bach, alla fine trova le sue piante proprio davanti alla porta di casa, nel giardino o poco più in là, sul ciglio della strada. Tuttavia egli penetra nel «profondo del bosco», in quelle ignote, selvagge regioni della coscienza, che per i più rappresentano l’oscuro inconscio. Il guaritore ha conseguito la conoscenza di queste regioni poste al di là degli steccati della civilizzazione, dei concetti e dei modelli di comportamento acquisiti, attraverso dolorose iniziazioni e straordinarie esperienze. In altre parole, egli è sensibilizzato: nella sua corazza si sono aperte delle crepe, e la luce può penetrarvi; egli è capace di percepire ove gli altri sono del tutto insensibili. Edward Bach ha osato addentrarsi molto profondamente nel bosco, per trovare la fonte della salute e raccogliere le erbe medicinali che vi si celano”.

Edward Bach, di origini Gallesi, nasce il 24 settembre 1886 nei pressi Birmingham. A scuola un maestro di origini gallesi suscita in lui un forte senso di venerazione che rimane nel tempo. Il suo legame col Galles fu sempre molto forte, infatti durante le vacanze scolastiche vi si recava con la famiglia; qui a diretto contatto con la natura iniziò ad amare le piante e gli animali. Figlio del proprietario di una fonderia, diviene apprendista nell’azienda del padre. Di animo buono, si interessa ai problemi degli operai ed in particolare a quelli relativi alla salute ed alla sicurezza sul lavoro, tanto che formulò delle ipotesi su come rendere il lavoro meno faticoso e pericoloso. Seguendo il suo desiderio di essere d’aiuto al prossimo, si iscrisse a medicina e divenne medico. Lavorò prima come direttore della stazione di pronto soccorso della Clinica Universitaria di Londra, poi come chirurgo presso il National Temperance Hospital, infine apre il suo studio di medicina generale a Londra.

Bach era sensibile di spirito, schietto e desiderava mettersi al servizio del prossimo. Nonostante la sua forte spiritualità, era un tipo concreto, più orientato alla pratica della vita quotidiana che a ritirarsi in meditazione o preghiera. Della medicina di allora pativa il fatto che la personalità dell’individuo sofferente non fosse minimamente considerata. Egli non poteva accontentarsi di una medicina così approssimativa, perché sentiva il bisogno di conoscere le vere cause delle malattie, al fine di operare delle vere guarigioni, andando oltre una mera soppressione dei sintomi.

A questo punto della sua vita di medico, gli sembrò che la via giusta stesse nella batteriologia e nella immunologia (ricordiamo che erano i tempi delle grandi scoperte di Koch, Pasteur e Behring). Così accettò un posto da assistente all’istituto di Batteriologia della Clinica Universitaria, dedicandosi allo studio dei batteri intestinali, e sviluppando dei vaccini che ebbero molto successo tra i suoi pazienti, alcuni dei quali guarirono definitivamente dai loro disturbi cronici. Il successo iniziava ad arrivare e avrebbe potuto riposare sugli allori, godersi il benessere e la ricchezza che le sue scoperte ed il suo studio sempre affollatissimo gli davano, ma ben altro era il suo destino.

Durante la prima guerra mondiale si prese cura di un intero reparto di chirurgia con ben 400 posti letto. In questo periodo di intensa attività, sua moglie morì di difterite, e Bach, che di costituzione non era troppo forte, si ritrovò sfinito e si ammalò gravemente cadendo perfino in coma. Gli venne diagnosticato un carcinoma maligno in stato avanzato alla milza, lo operano e gli comunicarono che aveva tre mesi di vita! 

Bach però aveva un altro compito, non era il momento di morire: quella era nient’altro che la sua malattia iniziatica. Infatti, appresa la notizia, anziché occuparsi di come godersi le ultime settimane di vita, Bach tornò nel suo laboratorio e si mise a lavorare giorno e notte alle sue ricerche, ignorando il suo stato di salute che pensava essere ormai compromesso. Questo è interessante, perché ci mostra che la sua preoccupazione era, come sempre, quella di portare avanti il suo lavoro, anche prima di morire. Chissà forse desiderava davvero lasciare il più possibile all’umanità. Insomma non dimenticò mai la sua missione, nemmeno dopo una “condanna di morte” come quella. 

Le settimane passarono, ma invece di indebolirsi ulteriormente, le sue forze crescevano di giorno in giorno. Proprio dal suo lavoro traeva nuove energie. Un medico che aveva assistito alla sua operazione, lo vide alcune settimane dopo ed esclamò: «Misericordia, Bach, ma tu dovresti essere morto!». Bach stava affrontando la sua malattia di iniziazione, la sua “malattia sacra”. Molte culture “primitive” riconoscevano i loro guaritori, gli sciamani, proprio da queste gravi malattie. La prossimità della morte purifica la coscienza, apre porte chiuse e rende più sensibile l’essere. La malattia che porta fino alla morte può essere il varco che ci riconduce a noi stessi. Si narra che chi ne è colpito viene invitato dagli dei, gli spiriti o gli antenati, a seconda del contesto culturale, a dedicare tutta la sua vita al bene del prossimo. Se accetta gli si concede di proseguire la vita. Non deve essere stato difficile per Bach, già così sensibile alla sofferenza altrui, superare una tale prova.

La malattia fortifico l’intenzione e la visione di Bach verso la ricerca delle vere cause, al punto che il suo lavoro alla Clinica Universitaria non era più adatto a lui. Il destino però non abbandonò mai Bach, infatti, all’Ospedale Omeopatico di Londra, si rese disponibile un posto da patologo-batteriologo. Quel posto diede a Bach l’opportunità di conoscere le opere di quello che divenne il suo mentore spirituale: Samuel Hahnemann (1755-1846), il fondatore della medicina omeopatica. Finalmente Bach aveva trovato la conferma a molte delle sue intuizioni nell’opera fondamentale di Hahnemann: l’Organon. Un detto orientale dice: «Quando l’allievo è pronto, allora incontra il suo maestro».

Bach trovò qualcuno che come lui pensava che dovesse essere curata la persona sofferente e non la malattia, e che lo stato psichico del paziente non dovesse essere trascurato, come faceva invece la medicina scientifica. Ai tempi di Hahnemann predominava una medicina “eroica”, nella quale si trattavano i malati con veleni come l’arsenico, il vetriolo e il mercurio, per stimolare, in corpi sfiniti, “eroiche” reazioni quali convulsioni, sudorazioni, vomiti, diarree. Poiché il dogma era: “Finché il corpo reagisce c’è ancora speranza”. Inoltre si usavano salassi, vescicazioni con sostanze caustiche e una chirurgia con strumenti non sterilizzati, utile più alla sperimentazione medica che alla cura delle persone sofferenti. Hahnemann, come Bach, era un uomo onesto e compassionevole, tanto che dovette prendere atto che quel tipo di medicina materialistica non era in grado di guarire. La crisi di Hahnemann culminò con l’abbandono della professione medica. Questo fatto, nonostante lavorasse come traduttore, precipitò la sua famiglia di ben 11 figli nella miseria. Iniziamo ora a capire le affinità tra i due personaggi, ed il perché Bach fosse così attratto dal lavoro di Hahnemann.

Quella che sembrava la fine di una carriera, fu invece, come spesso capita, l’inizio di una straordinaria innovazione in campo medico. Hahnemann comprese il principio terapeutico secondo il quale un medicamento efficace può provocare, nella persona sana, ma in maniera più attenuata, gli stessi sintomi della malattia da curare. Nasce l’Omeo-patia che si contrappone alla “Allo-patia”. 

Nella tradizione medica, già Ippocrate e Paracelso avevano compreso che: sia la malattia sia il rimedio corrispondente devono presentare caratteristiche comuni. Hahnemann poneva l’accento più sulla somiglianza delle manifestazioni interiori che di quelle esteriori. Provò su se stesso numerose sostanze. Scoprì che la malattia è un fenomeno multi-stratificato. Scomparsi i sintomi di una patologia, ne comparivano altri che erano più profondi, come “coperti” dai primi. Ovviamente anche questi nuovi sintomi venivano trattati con un simile. Hahnemann si accorse inoltre che durante il processo di guarigione, la malattia si sposta dalla psiche al corpo, dall’interno all’esterno, dall’alto al basso. I rimedi omeopatici sostengono questo processo e aiutano la persona ad autoguarirsi. Spesso si manifestano in forma più attenuata vecchi sintomi, ma in successione inversa. Pensava che la medicina classica non facesse altro che sopprimere i sintomi, rendendo i malati ancora più malati, perché respingendo le malattie dalla superficie verso l’interno, alla fine si danneggia la psiche del paziente. Hahnemann per diminuire l’effetto tossico dei rimedi iniziò a diluirli; ma così facendo, notò che il loro effetto, lungi dal diminuire, si “potenziava”, e l’azione diventava più profonda e più specifica. L’unica condizione era che il rimedio fosse dato in base alla regola della similitudine, altrimenti non agiva.

Le diluizioni erano tali che i più materialisti potevano (e possono) far passare come “acquetta” i rimedi di Hahnemann. Infatti, per la legge di Avogadro, sappiamo che da una certa diluizione in poi neanche una sola molecola della sostanza originaria è presente nel preparato. In realtà i “globuletti” di lattosio e acqua dinamizzata sono solo i supporti fisici di forze spirituali, di informazioni non misurabili con i comuni strumenti. Molte sono le tradizioni nelle quali le medicine sono triturate, scosse e sottoposte a riti propiziatori per riattivare lo “spirito del medicamento”. Perché è sempre e solo lo “spirito della pianta” a favorire la guarigione, non la sostanza. Paracelso parla della quintessenza, dell’invisibile principio spirituale, al di là degli elementi fisici tangibili.

Sta di fatto che, nonostante le feroci critiche che ogni novità comporta, con le sue teorie, Hahnemann rivoluzionò la medicina, e l’Omeopatia si diffuse in tutto il mondo.

Bach credeva che la tossiemia intestinale corrispondesse alla psora di Hahnemann, e cominciò a diluire i suoi vaccini secondo il metodo omeopatico. Fu molto felice di questa scoperta, perché ora era in grado di somministrarli per via orale, cioè senza la siringa, arnese che data la sua sensibilità, lui aborriva da tempo. Altra cosa interessante era che, come il suo maestro spirituale, Bach non somministrava più i rimedi a intervalli fissi, ma a seconda delle necessità, e solo quando era terminato l’effetto del rimedio precedente.

Nel procedere del suo lavoro, selezionò migliaia di ceppi batterici e li classificò in sette gruppi che costituirono la base per i suoi sette nosodi (rimedi omeopatici creati da Bach e rimasti nella farmacopea omeopatica). Iniziò così una fase di sperimentazione, durante la quale divenne consapevole di diverse cose. Si accorse che con l’uso dei suoi nosodi, non solo migliorava la flora batterica, ma sparivano anche i disturbi fisici di più varia gravità. Ebbe poi la conferma dell’idea di Hahnemann che si dovesse guarire la malattia primaria, cioè l’intossicazione psorica, anziché trattare le manifestazioni patologiche superficiali, in quanto le malattie che si susseguono sono solo mascheramenti dell’originario male psorico o di un’altra intossicazione (che in omeopatia si chiama sicosi o sifilide). Capì inoltre quanto fosse importante la dieta poiché, originariamente, l’uomo mangiava cibi crudi, come frutti tropicali, noci, e altri cibi naturali; con questo tipo di alimentazione le feci hanno un odore gradevole, un colore chiaro e una reazione leggermente acida. L’intestino con la sua immensa superficie (fino a 200 mq) è la più grande area di contatto tra l’uomo e l’ambiente esterno. Data la sua grande sensibilità, quando l’alimentazione non è buona, si crea il terreno per la malattia.

Particolarmente importante per il suo lavoro futuro, fu per Bach la scoperta che c’era una relazione tra ciascun gruppo batterico e la personalità dei pazienti. Si andò così rafforzando in lui l’opinione secondo la quale dovevano esistere sette tipi fondamentali di personalità, che riflettevano i sette diversi stati intestinali.

Bach ebbe un grande successo con i nosodi, tanto che era diventato un medico affermato e guadagnava molto. Nonostante ciò, non divenne mai uno dei tanti medici fissati con l’intestino. Il suo desiderio era quello di sostituire i nosodi, derivati da sostanze patologiche, con sette pure piante medicinali del mondo della natura. Tutti i grandi guaritori del passato avevano capito che la natura celava lo strumento necessario. Bach sapeva ormai che non era importante il contenuto biochimico delle piante, bensì la loro frequenza vibratoria. Per questo aveva sperimentato anche l’elettroterapia e la radioterapia, ma voleva trasmettere le vibrazioni necessarie alla armonizzazione del paziente senza un apparecchio e nel modo più naturale possibile, così abbandonò la cosa. 

A questo punto del cammino, Bach non aveva più guide, in quanto aveva cominciato ad andare oltre Hahnemann. La sua sola guida era ora l’intuito ed il suo solo sostegno la fede.

Il 1928 fu un anno speciale. In laboratorio si sentiva chiuso e non riusciva quasi più a stare. Passeggiava sempre più spesso per i parchi della città, cercando piante per sostituire i nosodi, ma tutte le sperimentazioni che fece non ebbero successo. La sua ricerca si stava arenando. Così decise di fare un viaggio nella magica terra dei suoi antenati, l’amato Galles, dove si sentiva completamente a suo agio, in armonia con gli elementi della natura. Durante questo viaggio scoprì i primi due fiori: Impatiens e Mimulus. Tornato a Londra, li sperimentò sui suoi pazienti, ma non in base ai loro disturbi fisici, quanto in base alle loro caratteristiche psichiche. Ottenne eccellenti risultati, che lo spronarono più che mai verso il suo prossimo passo. Sentì impellente il richiamo della terra dei suoi antenati. Si convinse che in laboratorio non aveva più niente da scoprire. Fu così che, nella primavera del 1930, lo chiuse definitivamente, bruciò tutte le conferenze e i saggi che aveva tenuto sulle sue ricerche, distrusse siringhe e flaconi di vaccini, gettandone il contenuto nello scarico del lavandino. Lo studio dei nosodi poteva ormai continuarlo qualcun altro! Bach era pronto per la conoscenza della Natura, era pronto a sacrificare fama e benessere economico, era pronto per quel salto nel nulla che tutto gli avrebbe restituito. Inutile dire che venne considerato pazzo dai suoi colleghi e, probabilmente, da molti dei suoi pazienti. Per fortuna, Bach non fu mai tipo da lasciarsi influenzare dall’altrui opinione. 

Arrivato nella sua nuova dimora, non fu un caso se, aprendo la valigia, che pensava contenesse mortaio e pestello, Bach vi trovò solo scarpe! Ne avrebbe avuto più bisogno che dei sui arnesi, visto che avrebbe attraversato in lungo e in largo i boschi del Galles. Inoltre, per il suo nuovo metodo di “dinamizzazione”, non avrebbe avuto più bisogno di quegli strumenti. Bach trovò le sue ispirazioni e le sue intuizioni camminando, in armonia con l’ambiente circostante. Capì che la Natura stessa è il vero guaritore, e che il medico è solo un intermediario, un catalizzatore di una possibile guarigione; un essere umano al servizio del prossimo, qualcuno che avrebbe dovuto evitare di arricchirsi sulle sofferenze di un altro uomo.

Durante le sue passeggiate nei boschi Bach iniziava a vedere sempre più chiaramente il tipo di piante che cercava. Dovevano essere piante “superiori”, non primitive, non velenose e nemmeno commestibili. Solo piante da fiore particolarmente evolute, il cui grado di evoluzione fosse uguale o superiore a quello dell’uomo medio. Riteneva infatti che le piante velenose avessero una vibrazione troppo animale e grossolana, e che rendessero l’uomo confuso, sonnolento e sordo, abbassandone le vibrazioni del corpo, rendendolo infine non più idoneo ad ospitare l’Io spirituale. Bach era convinto che le piante “inferiori” fossero incomplete e non corrispondessero all’uomo nella sua interezza, perché non potevano esprimere pienamente l’armonia dell’archetipo della pianta originaria. Pensava che con le piante incomplete non si può curare tutto l’Uomo: solo l’unità vegetale intera può corrispondere all’intera unità Uomo. Inoltre dovevano essere usati solo gli esemplari più sani di ciascuna specie, in quanto le piante danneggiate, mal cresciute, mangiucchiate dalle lumache o cresciute in posti poco adatti, non potevano essere dotate di quella forza eterica necessaria per riarmonizzare nell’essere umano le vibrazioni negative. Era convinto insomma che l’archetipo della pianta non potesse manifestarsi perfettamente in esemplari non perfetti.

Camminando camminando, in Bach cresceva sempre più la consapevolezza dell’opera che andava costruendo. Capì che i suoi nuovi rimedi dovevano essere preparati con fiori freschi, non con erbe secche, vecchie o triturate. Nei fiori vi è l’apparato seminale, nel quale è concentrata tutta l’energia rigeneratrice della pianta. I fiori più adatti sono quelli che fioriscono nel pieno dell’estate, intorno al giorno di san Giovanni, perché allora il Sole è al massimo della sua forza. Nella tradizione celtica, il solstizio d’estate era il momento migliore per la raccolta delle erbe. Mességué dice: «Le piante vogliono molto sole e poca luna. Mai raccogliere dopo le notti di luna piena, perché la luna toglie alle piante qualsiasi energia… Qualche giorno prima della notte di san Giovanni è il momento migliore».

Bach era comunque molto metodico e non si abbandonò mai a fantasticherie o illusioni. Nel corso del suo lavoro di ricerca, non trascurò nemmeno le condizioni ambientali, che sapeva influivano sulle energie strutturanti della pianta. Così come considerò l’analisi astrologica, in seguito abbandonata per amor di semplicità.

Più si immergeva nelle profondità del bosco, e quindi nel suo lavoro di moderno sciamano, più diventava ricettivo, sensibile alle energie sottili; la sua coscienza si allargò fino ad avere doti di chiaroveggenza. Egli comprese che i sensi di ciascuno di noi sono più sensibili dei più sofisticati strumenti scientifici (ed è vero ancora oggi!). Ma la sua mente doveva rimanere lucida, poiché egli era consapevole che emozioni negative avrebbero oscurato e distorto le sue capacità. Bach divenne sensibile al punto che gli bastava mettere un petalo sulla lingua per avvertirne la vibrazione, e perché il suo corpo reagisse. Spesso sapeva in anticipo di quale male soffriva il suo prossimo paziente, prima ancora che questo si presentasse nel suo studio iniziava a sentirne i sintomi su di sé. Il nostro cervello setaccia i miliardi di stimoli vibrazionali che riceviamo in ogni istante, lasciando passare solo quelli simili ai nostri schemi. Nel sensitivo o nel veggente c’è una porta aperta in più, e passano molti segnali con i quali la maggioranza degli esseri umani non è sintonizzata.

In una mattina soleggiata di maggio del 1930, il nostro eroe scoprì il metodo più semplice e naturale per trasferire all’acqua l’informazione della pianta. Una fresca rugiada gli bagnava le scarpe e i calici dei fiori erano affollati di gocce scintillanti, allora capì che le gocce di rugiada, esposte alla piena luce solare, si caricavano dell’energia guaritrice dei fiori. Raccolse la rugiada, e verificò che quella proveniente da piante esposte al sole aveva più forza rispetto a quella delle piante più in ombra. Erano i raggi del sole che trasmettevano all’acqua il potere dei fiori! Ovviamente sarebbe stato troppo faticoso e lungo raccogliere la rugiada. Così ideò il primo sistema per ottenere i suoi preparati. Usò delle bacinelle di vetro piene di fresca acqua di fonte, nelle quali mise i fiori freschi, e successivamente, esponendole al sole durante le ore di massima intensità, verificò che l’acqua si era caricata della vibrazione del fiore. Niente pestelli, niente essiccatoi, nessun trituramento, tutto all’insegna del massimo rispetto e dell’integrità di quel meraviglioso essere vegetale che è il fiore. Bach aveva inoltre trovato il modo di coinvolgere tutti i quattro elementi del mondo della natura, senza trattamenti che violassero l’integrità della pianta.

Le piante, che per metà sono rivolte all’oscurità della terra e per metà al sole e alle altre stelle, sono mediatrici fra il regno minerale e il regno dell’uomo e degli animali, fra corpo e anima. 

Bach aveva scoperto come le piante comunicano al microcosmo le forze del macrocosmo. Esse hanno il potere di rafforzare le vibrazioni dell’Anima nel corpo, così che l’uomo possa ripristinare il contatto col suo Io superiore.

Nel suo viaggio di ricerca, Bach compiva le proprie osservazioni in due direzioni: sugli uomini di qualsiasi età e condizione sociale, osservandone le fattezze e il comportamento, e sulla natura, contemplando alberi, arbusti e semplici piantine di campo. All’inizio pensò che ci dovessero essere 12 rimedi di base (e in effetti è così), ma in seguito ne aggiunse altri sette, i cosiddetti “sette aiuti”. Infine raddoppio il numero dei primi 19 rimedi portandoli a 38. La scoperta degli ultimi 19, i più spiritualizzati, porto Bach a vivere in prima persona le sofferenze di ogni quadro floreale, finché non trovava il rimedio adatto, lo assumeva su di sé, e tutto spariva.

Nel giorno del suo cinquantesimo compleanno, stremato dall’intensa ricerca, tutta vissuta in prima persona, tenne un’ultima conferenza nella quale descrisse accuratamente il suo metodo. Poco più di due mesi dopo, ormai compiuta la sua missione, lasciò questa dimensione senza alcuna malattia il 27 novembre 1936, nel letto di olmo da lui stesso costruito.

La floriterapia di Bach avrebbe aiutato milioni di esseri umani in tutto il mondo a divenire più consapevoli di loro stessi e a portare sulla Terra il loro personalissimo dono.

a cura d Corrado Nieli