Quando pensavo semmai mi fossi trovato un giorno a dover relazionare in questo contesto, sempre ho pensato che avrei parlato di Tarocchi. In fondo sono stati proprio i Tarocchi a portarmi qui. Nell’incontrarli e studiarli è nata forte l’esigenza di conoscere l’astrologia e i suoi simboli, visti i continui rimandi degli autori che ho frequentato. Era inoltre facile intuire che i due sistemi avessero una loro familiarità, una loro intima area di contatto che restituiva la possibilità di un’interessante lavoro d’integrazione. Quindi, quando finalmente mi è stato chiesto di preparare un intervento in un Convegno che ha per tema la relazione, mi è sembrato alquanto sincronicistico. Prima di tutto, perché se guardo al mio rapporto con i Tarocchi, non posso che descriverlo come una relazione amorosa, caratterizzata da travolgenti passioni, destabilizzanti altalene di abbandoni, ritorni e struggente nostalgia, da un continuo e stimolante scambio insomma, un “…sono nato per guardarli e riconoscere me stesso”[1] per dirla in maniera shakespeariana. Una relazione tra l’altro ideale per un Sole-Giove in VII in Scorpione come me, vista l’inesauribile fonte di cose sempre nuove da scoprire in un vero e proprio interminabile viaggio e l’inestinguibile cornucopia di conoscenza a disposizione. L’Astrologia, a questo punto, partita come una seduzione estiva, una tentazione alla quale immancabilmente non ho saputo resistere, da appendice gregaria al mio percorso di studi in Tarologia si è trasformata in un’altra totalizzante esperienza amorosa che mi ha fatto riscoprire bigamo. Una pur sempre virtuosa modalità di sublimare la mia Venere in VIII in Scorpione, forse. E il mio Saturno, opposto praticamente ad ogni cosa nel mio tema, si è dovuto, suo malgrado, fare carico di tutto l’impegno di cui una tale mole di lavoro e di studi necessita. C’è poi l’altra relazione. Quella auspicata o auspicabile tra Astrologia e Tarocchi. Ed è proprio intorno a quest’idea che si è costruita la proposta, quella contenuta in queste righe, oggetto di un’altra relazione: quella tra voi e me. Cosa dico loro? Come rendere interessante qualcosa che magari è interessante solo per me? Che valore porto che non sia un valore solo per me? E infine come faccio a parlare di relazione, visto che questo è il tema, parlando di Astrologia e di Tarocchi? La risposta a queste prime domande è arrivata da sola e abbastanza in fretta: partirò dalla mia esperienza. Se di vere e proprie relazioni per me si tratta, una quella con i Tarocchi, l’altra quella con l’Astrologia, non si può che parlarne raccontando un’esperienza. Perché la relazione è un fatto esperienziale, non teorico. È in tutto e per tutto la pratica prima della teoria. Non cercherò quindi di dare risposte, ma piuttosto di costruire domande, spero quelle giuste, partendo dalle molte suggestioni fin qui avute, anche condividendone qualcuna. Le relazioni c’interrogano con la loro natura sempre destabilizzante. Quando una relazione rappresenta la risposta a qualcosa nasce sterile, disfunzionale, ed è destinata all’epilogo. È la nostra disponibilità a farci interrogare dalla relazione, a farci mettere in discussione accettandone la sua natura polemica, se volete, a restituire alla relazione stessa la sua naturale vitalità. La relazione è infatti vitale e la vita sta nel divenire.

Ora, nel tentativo di perseguire in questi anni di studio quell’integrazione dei due sistemi di cui parlavo prima, ho constatato più e più volte come essi si parlassero. Quale che fosse il tema che si affrontava era naturale e inevitabile collegare, connettere, anche sovrapporre, in un dialogo che s’intavolava da solo ed al quale bisognava solo assistere. Nel documentarmi poi ho incontrato nei vari autori, vecchi e nuovi, deduzioni tutte ugualmente e assolutamente stimolanti e plausibili. Utili, inoltre, nel restituire, sia in una direzione che nell’altra, un importante lavoro di amplificazione dei simboli, apportatore di complessità e profondità nella costruzione dei significati, vuoi del singolo simbolo, vuoi dell’insieme tutto. Era però la natura di fondo dell’approccio a questo tipo di lavoro, mai dichiarata, ben inteso, quando non addirittura anzitempo negata, a lasciarmi perplesso. Atteggiamento che ho ritrovato anche in me e che continuo a ritrovare anche ora che, diciamo così, cerco di tenere sotto controllo. Lo sforzo risultava essere sempre tutto proteso alla ricerca di una chiave universale, che permettesse di trovare delle nette corrispondenze tra i simboli presenti nei due sistemi. Ed essendo l’Astrologia il sistema più antico, era un po’ quello dei Tarocchi a dover essere adattato. Un esempio può essere dato da uno dei mazzi più famosi, il Rider Waite, dove addirittura è stata operata un’inversione di carte in nome della corrispondenza. Devo aprire una parentesi per non essere mal compreso nelle mie intenzioni. Io credo che nei Tarocchi, come così pure nell’Astrologia, valga tutto. E mi spiego. Se l’elemento in cui i Tarocchi, e tutti i sistemi simbolici, si forgiano è quello della sincronicità, tutte le operazioni che vengono e sono state fatte con i Tarocchi sono importanti in quanto apportatrici di significati che vanno letti oltre il giudizio o il merito delle intenzioni di chi le ha prodotte. L’operazione va osservata in chiave simbolica. Se restiamo nell’intenzione dell’esempio citato, la manipolazione operata si è resa necessaria perché, pur partiti da un’intuizione, si è poi caduti nelle trame della logica. L’intuizione ci fa vedere qualcosa, la logica prende a prestito l’informazione iniziando a cercare le altre corrispondenze e laddove le corrispondenze non si trovano ‘interpreta’, interviene, manipola, trasforma. Sicuramente apporterà altre considerazioni, nel merito dell’operazione effettuata, da tenere presenti, ma intanto ci sta già, per così dire, significando. Mi farò aiutare, per chiarire su cosa intendo focalizzare l’attenzione, da Valentin Tomberg. Nella meditazione sull’Arcano della Luna, Tomberg scrive: “Il diciottesimo Arcano dei Tarocchi è l’arcano della duplice corrente chiamata da Henry Bergson ‘intelligenza-materia’ o ‘intellettualità materialista’, contraria alla duplice corrente ‘durata-spirito’ o ‘intuizione-coscienza’. Perché la corrente ‘intellettualità-materialità’, messa in evidenza da Bergson meglio di ogni altro pensatore, è precisamente questo ‘agente di decrescita’ o principio dell’eclisse suggerito dal diciottesimo Arcano. Infatti la Luna è il principio della riflessione: essa riflette la luce del Sole, come l’intelligenza umana riflette la luce creatrice della coscienza. E come il gambero nuotando si muove all’indietro, così l’intelligenza umana anch’essa si muove all’indietro, cioè nella direzione effetto-causa, quando è impegnata nell’attività conoscitiva che le è propria.”[2]

È quindi attraverso un indisturbato processo di riflessione, senza che il gambero-intelligenza prenda il sopravvento facendo regredire il processo stesso segregandolo in meglio definiti confini, che è possibile non sterilizzare, eclissandola, l’illuminante potenzialità creatrice della coscienza. Tomberg prosegue: “Come la volontà di dominio sulla natura mette in movimento il meccanismo intellettuale e gli detta le regole del suo funzionamento, così la Luna del XVIII Arcano si trova in eclisse, cioè è contornata dai raggi riflessi della luce del sole, mentre la superficie della luna stessa riflette solo l’immagine di un viso umano di profilo.”[3] Il linguaggio con cui i simboli parlano alla coscienza creatrice è quello analogico. E non è forse ‘contro, inversamente’ il significato del prefisso ana? Ancora. Non è forse per assecondare l’imposizione delle necessità della logica che si finisce per cadere vittime di quella bulimia di corrispondenze di cui parlavo prima? Non è forse, di nuovo, per assecondare l’egopatica modalità della logica che quando si trova una luce per forza con quella bisogna illuminare tutto? La coscienza creatrice, di cui parla Tomberg, nella sua saggezza sceglie che cosa illuminare, che cosa ‘rivelare’, e lo fa secondo i suoi tempi e secondo le sue logiche. Probabilmente il nostro compito è solo quello di ricevere quanto ci viene dato, quello di ascoltare, quello di ‘riflettere’, quello di entrare insomma in relazione. È nella relazione infatti che pienamente possiamo vedere in opera il principio di riflessione: riflettendoci nell’altro noi vediamo rivelate parti di noi che non sarebbe stato possibile vedere. Solo però se ci rendiamo disponibili alla relazione.

Eccola dunque la sincronicità. Nel percorso intrapreso al fine di trovare corrispondenze tra i due sistemi, che mi ha restituito i dubbi che vi ho indicato, proprio nel preparare un intervento che tenga conto dei due sistemi, ma in un Convegno che ha per tema la relazione, ho forse trovato la prima domanda. Corrispondenze o relazione? Che vuole anche dire: logica o riflessione? Far quadrare le cose, realizzando dubbie architetture che tutto contengano e che probabilmente neanche esistono, o prestare attenzione ad ogni analogia riscontrata facendosi accompagnare fino a dove questa intenda farlo senza andare oltre? In fondo basta seguire le normali regole di una relazione: l’altro è quello che è, né quello che noi pensiamo che sia, né tantomeno quello che noi vogliamo che sia. L’altro va conosciuto e questo richiede tempo, va accettato e questo richiede disponibilità. Anche nelle nostre relazioni noi cerchiamo a volte la persona che ci corrisponde, l’incastro perfetto, la proverbiale altra metà. E nel caso le cose non ci tornino, interveniamo. Ma, laddove è necessaria corrispondenza o incastro, va da sé che si registra un’incompletezza iniziale di base che va colmata. Sono invece due interi che possono dare vita ad un terzo nuovo elemento che è appunto la relazione. Due metà possono al limite corrispondersi. Ora, entrambi i sistemi considerati sono bastanti a sé stessi e non possono che ritrovarsi insieme in una relazione paritetica che non preveda corrispondenze, sovrapposizioni o gerarchizzazioni. Possono convivere, collaborare, al limite interrogarsi e contaminarsi vicendevolmente, com’è normale che sia una volta messi in relazione, ma non certo fondersi.

Proseguendo in questo ragionamento, un’altra cosa che ho potuto riscontrare è che molti studiosi e ricercatori inseguono i puri Tarocchi o l’Astrologia delle origini e via dicendo. C’è una legittima quanto diffusa volontà a ritrovare un punto di partenza, un qualche modello originale a cui fare riferimento. A ritrovare quell’ispirazione iniziale che sembra custodire i codici che questi, come pure altri sistemi simbolici, dovrebbero unificare in un unico profetico sapere divino. Operazione sicuramente importante, laddove sia vissuta quale mezzo per conoscere i simboli anche attraverso la loro storia, ma nuovamente censurante laddove invece la solita logica intervenga per sanificare, escludere, plasmare, nell’intento di riportare tutto ad una supposta origine. Se qualcosa delle origini va recuperato è sicuramente lo scopo che questi sistemi simbolici sembrano avere in comune, cioè quella missione pedagogica che costituisce il vero patrimonio da salvaguardare a favore del genere umano. Per il resto mi piace pensare ai simboli come a qualcosa di vivo, in continua evoluzione. Il termine simbolo, come tutti saprete, deriva dal greco symballein, che significa mettere insieme. Il simbolo è quindi per sua stessa vocazione relazionale, capace di comunicare in differenti contesti, culture, nel passato come nel presente, e come pure nel futuro. Questa possibilità gli è data da questa sua natura includente, decisamente in contrapposizione con l’atteggiamento della nostra intelligenza che Bergson descrive così: “La nostra intelligenza, quale l’evoluzione della vita l’ha modellata, ha per compito essenziale d’illuminare la nostra condotta, di preparare la nostra azione sulle cose, di prevedere, per ogni situazione data, gli eventi favorevoli o sfavorevoli che ne potranno derivare. In ogni situazione essa tende, perciò, istintivamente, ad isolare quanto assomiglia a ciò che già conosce; essa cerca l’identico, onde poter applicare il suo principio che ‘l’identico produce l’identico’. In ciò consiste la previsione dell’avvenire fatta dal senso comune. La scienza porta tale operazione al più alto grado possibile di esattezza e di precisione, ma non ne altera il carattere essenziale. Al pari della conoscenza comune, nelle cose essa non rileva che l’aspetto di ripetizione. Se il tutto è originale, essa si adopra di risolverlo in elementi o in aspetti che siano press’a poco la riproduzione del passato, e perciò le sfugge quanto c’è di irriducibile e di irreversibile nei momenti successivi di un processo.”[4] Essere in relazione significa certamente tenere presente di chi è stato l’altro, ma altrettanto considerare chi è e che domani sarà, possibilmente, qualcun altro. Quante relazioni si avviano al loro epilogo con la frase: “Non sei più come quando ti ho conosciuto.”? Nel rappresentarsi la capacità includente propria del simbolo, va considerato anche il fatto che, non abitando la nostra dimensione che è fatta di spazio e di tempo, oltre a contenere i significati che fino a qui ha raccolto, già contiene i significati che ancora hanno da venire. Come se osservassimo una tavola degli elementi di Mendeleev con i suoi spazi ancora da riempire. Dice Ferdinando Alaimo: “La multidimensionalità del simbolo offre di sé molteplici letture, dalle più volgari alle più raffinate. Le peggiori, vale a dire le prevalenti, sono quelle che ne uccidono la creatività fissandone i significati, offrendocene un unico punto di vista.”[5] E aggiunge Tomberg: “Le scienze occulte dunque sono derivate dalla filosofia ermetica tramite la via dell’intellettualizzazione,. Per questo motivo non si dovrebbe considerare i simboli, gli Arcani Maggiori dei Tarocchi per esempio, come espressioni allegoriche di teorie o concetti di queste scienze. È vero invece il contrario: sono le dottrine delle scienze occulte che sono derivate dai simboli – dei Tarocchi o altri – ed esse sono da considerarsi espressioni intellettualmente ‘allegoriche’ dei simboli e degli arcani dell’esoterismo ermetico. Così non bisognerebbe dire: la quarta carta, l’Imperatore, è il ‘simbolo’ della dottrina astrologica su Giove. Bisognerebbe piuttosto dire: l’Arcano della quarta carta, l’Imperatore, si rivela anche nella dottrina astrologica su Giove. La corrispondenza in quanto tale resta intatta, ma vi è un abisso tra questi due enunciati. Nel primo enunciato si resta astrologo; mentre nel caso del secondo enunciato si pensa da ermetista pur restando astrologo, se lo si è.”[6] La proposta è dunque quella di avvicinarsi al simbolo scevri di pregiudizio. Tutti noi sappiamo quanto sia il pregiudizio devastante nell’ambito di una relazione. Ed è proprio, permettetemi, la ‘modalità relazione’ che ci costringe o comunque è l’occasione, nell’incontro col simbolo, di prendere coscienza di tutti i nostri pre-giudizi, le nostre pre-costruzioni, i nostri schemi di pensiero e quanto in essi ci identifichiamo, proprio perché la relazione col simbolo nasce e si consuma principalmente in un ambito cognitivo, accendendo il conflitto tra Giove e Mercurio, il lobo destro e il lobo sinistro. Un vero e proprio yoga per la mente insomma. Un lavoro che può condurci verso una nuova modalità della mente: una mente relazionale. Se lo scopo che ci si prefigge è quello di fondere i sistemi, la relazione verso cui ci si avvierà sarà una relazione simbiotica e, in quanto relazione, disfunzionale (mente simbiotica, divorante). Se invece la nostra mente può accettare l’idea che 1 + 1 faccia 3, avremo dato la possibilità a quest’incontro di essere fecondo e dare vita ad un terzo elemento costituito dalla relazione stessa che, vivendo di vita propria, potrà portarci verso sviluppi inimmaginabili (mente relazionale, generante).

Abbiamo già detto che l’astrologia, nata probabilmente insieme alla Civiltà per come la conosciamo, è di molto precedente all’invenzione dei Tarocchi, che è riconducibile al Rinascimento italiano. È plausibile ipotizzare che gli Imagers[7], gli inventori dei Tarocchi, fossero dei filosofi, cosa che coincideva all’epoca con l’essere degli astrologi (come così pure degli ermetisti, cabalisti, alchimisti, eccetera). Sicuramente quindi parte della loro conoscenza si è trovata convogliata nello strumento che stavano approntando. Parte e non tutta, perché è altrettanto plausibile pensare che la loro non fosse un’operazione atta a produrre una replica di quello o quei sistemi. Che bisogno c’era? I Tarocchi si caratterizzano per la loro immediatezza e per la loro semplicità: ti parlano anche se non sai che ti stanno parlando e anche se non sai niente di Tarocchi comunque ti parlano. È la scelta di comunicare con l’immagine l’Eureka degli Imagers. Una trasparente scelta di campo: quello analogico. Ma tutto nei Tarocchi è un inganno: l’immediatezza si trasforma in profondità e l’apparente semplicità ti costringe a studiare di Astrologia, di Cabala, di Alchimia, di Massoneria e di ogni sorta di disciplina esoterica, mitologia o religione. L’intenzione degli Imagers, dal mio punto di vista, era quella di produrre un ‘lascito’ disponibile per tutti: nelle corti delle Signorie come sui tavoli delle taverne. Tutti quelli che hanno occhi per vedere. E non ultima, l’intenzione di permettere a tutti quei saperi occultati di evadere dalle cattedrali in cui erano rinchiusi per restituirsi al popolo: una sorta di rivoluzione pop degli esoterismi. Infine, laddove ognuna di quelle discipline, di cui sopra, per sua natura rappresenta un lascito[8], i Tarocchi possono, a questo punto, rappresentare il ‘lascito dei lasciti’. Ora, mi piace pensare che questo disseminare indizi nelle carte, che accompagnano una volta verso l’Astrologia, una volta verso la Cabala, una volta verso questa o quella disciplina, sia il ‘sacro inganno’ degli Imagers. I vuoti lasciati rappresenterebbero allora dei rompicapi impossibili che hanno il fine di sfinire l’ostinazione della logica per accompagnarci verso l’analogica. È o non è forse il Bagatto (il mago, il prestigiatore, il baro, l’abile propinatore di trucchi) la carta numero Uno del mazzo? Ma il trucco del prestigiatore ci diverte consegnandoci allo stupore: lo stupore di chi realizza che non si può vedere tutto con gli occhi che abbiamo, di chi realizza che serve un’altra vista. L’inganno del Bagatto ci costringe ad attraversare il velo dell’illusione in cui viviamo, insegnandoci che non basta quello che sappiamo o pensiamo di sapere: c’è dell’altro che va considerato. Ma ora, non profuma forse tutto questo di nettuniano? Ma allora il Bagatto è Nettuno? O è Mercurio che ha rubato qualcosa a Nettuno? Quanto sopra diventa plausibile in quanto non c’è nulla di più seriamente giocoso e scherzoso dei Tarocchi. I Tarocchi sono il vero Mercurio delle scienze occulte: come Mercurio ingannano, ma per portarci verso “una specie di redenzione”[9]; come Mercurio rubano qualcosa a tutte le divinità nel pantheon degli esoterismi; come Mercurio collegano, producono incontri, accendono scambi e relazioni.

Se la strada è dunque farsi accompagnare dall’analogia fino a dove lei decide di portarci e sospendere qualsivoglia interferenza dei meccanismi dell’intelligenza, stando semplicemente in relazione, prima di osservarne qualcuna, per dare un esempio per quanto possibile pratico di questo assunto, è il caso di segnalare un ultimo aspetto. Si diceva prima che il simbolo contiene probabilmente già quello che ha da venire e che questo risulta a noi come un vuoto da riempire ovvero lo percepiamo al pari di una casella vuota nella tavola degli elementi di Mendeleev. Faccio alcuni esempi, relativi al mazzo di Marsiglia, e poi ci ritorno. Nel tiraggio di una cliente che chiedeva ai Tarocchi come smettere di fumare, tralasciando tutta una serie di questioni che qui non servono, la soluzione sembrava concentrarsi nella carta del Bagatto. E la soluzione, che si presentava molto pratica e in piena sintonia con altri dati soggettivi presentati dalle carte, era nella bacchetta del Bagatto che per l’occasione si era trasformata in una sigaretta elettronica. Dubito che gli Imagers avessero mai potuto pensare a questo, anche solo per il semplice fatto che non c’erano ancora nemmeno le sigarette (il tabacco sarebbe arrivato di lì a poco). Eppure sembrerebbe che la sigaretta elettronica sia prevista. Ma lo stesso dicasi per la presenza di una lampadina, accesa per giunta, che il sole bianco insieme con i due flettenti dell’arco disegnano nella carta dell’Innamorato. O ancora la Ruota di Fortuna, che ci restituisce l’idea di un’imbarcazione, proponendoci un abbozzo di battello a vapore, come quelli che si vedevano navigare sul Mississippi ai tempi di Tom Sawyer. E cosa dire del Mondo, che tutto proiettato nel futuro arriva a proporci addirittura l’astronave? La mandorla, infatti, che contiene la donna al centro, è contornata da quattro figure dette ‘viventi’ (un Leone, un Toro, un Angelo e un’Aquila) che ci recano la simbologia quando dei quattro evangelisti, quando della visione di Ezechiele, quando delle costellazioni del Leone, del Toro, dell’Acquario e dello Scorpione, come pure, attraverso questo codice astrologico, dei quattro elementi (già comunque presenti nel quadrato che disegnano attorno alla mandorla) e, se volete, delle funzioni psicologiche junghiane. La mandorla diventa quindi a un tempo lo zodiaco, ma anche il cosmo, come pure un’astronave, così come la disegnerebbe un bambino. Un’astronave che sfreccia nel cosmo fra le stelle in cielo con dentro una donna. Questo per indicare quella multidimensionalità del simbolo di cui parlava Alaimo, quella capacità magicamente includente che permette al simbolo stesso di interpretare la realtà in qualsiasi tempo e in qualsiasi spazio. Ma dove voglio arrivare? Cercherò qui di usare la logica contro sé stessa. Se quello che ci si propone è di trovare nette corrispondenze tra i due sistemi di simboli, anche tenendo conto dell’epoca e del sapere astrologico a disposizione degli Imagers, bisognerà, presto o tardi, considerare il fatto che i pianeti, e quindi gli archetipi, conosciuti erano sette: Sole, Luna, Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno. Mancherebbero all’appello Urano, Nettuno, Plutone e Chirone. Verrebbe quindi a mancare tutta l’Astrologia transpersonale. Tutta quell’Astrologia che sul transpersonale ha costruito i propri significati sarebbe quindi da considerare eretica. E ancora, quell’Astrologia in attesa di questi altri due fantasmagorici pianeti-archetipi[10] starebbe aspettando Godot per consumare il suo atteggiamento già eretico in blasfema bestemmia. I puristi delle origini censurerebbero quindi tutti quei contenuti che tanto hanno reso ancora più grande il contributo che l’Astrologia può dare all’umanità. Forse per questo è mia convinzione che gli Imagers si siano affidati alle qualità peculiari del simbolo e del linguaggio analogico, perché tutto include se per analogia vi è attratto, o anche, perché tutto include se con il simbolo può entrare in relazione. Se le maglie larghe di quel sistema hanno lasciato lo spazio per una e-cigarette, per una lampadina, per un battello a vapore o per un’astronave, vuoi che non abbiano lasciato lo spazio per Urano, Nettuno, Plutone e Chirone? Vale la pena di cercare. E la via non può essere che l’analogia. Quando però insisto sul fatto di entrare in relazione, lo faccio unicamente perché per entrare in relazione bisogna realmente essere disponibili ad accogliere tutto quello che arriva, sospendendo l’azione dell’intelligenza che di solito si attiva quando l’altro inizia a parlare e non quando ha finito. Sto parlando dell’azione dell’intelligenza, non dell’intelligenza in sé.  Sto parlando anche, se volete, di un’altra logica: una contro-logica. In seconda istanza è necessario considerare ciò che arriva per quello che è e permettergli di vivere. Se ha ragione di vivere continuerà a vivere, diversamente si dissolverà.

Prendiamo dunque ad esempio l’Arcano del Matto. Proprio nell’ultimo Convegno di Eridano, quello su Nettuno, Giovanni Pelosini ci illustrava come “nella storia narrata dai Trionfi il Matto” fosse “il più paradossale e nettuniano dei personaggi” e come fossero le follie e i paradossi del Matto il “seme e il fonte della vita.”[11] E ancora: “Per non farsi ingabbiare dalle categorie e dalle convenzioni e rimanere indefinito, egli fugge persino dalla numerazione: può rappresentare così indifferentemente il niente (zero) o il tutto (infinito).”[12] Follia, paradosso, indefinitezza: tutte categorie certamente nettuniane. Il Matto dei Tarocchi, poi, rappresenta il mondo dell’anima che, obnubilandoci, opera la chiamata e ci invita a sradicarci dalle nostre zone di confort; quel mondo altro insomma che, come nebbia che sale, inghiotte tutti i nostri riferimenti e ben può essere rappresentato da Nettuno. Il Matto è sicuramente Nettuno. Ma il Matto dei Tarocchi può manifestarsi nella nostra vita anche attraverso un vero e proprio atto di volontà. Il bastone della carta è un simbolo di fuoco e il Matto rappresenta un importante carico d’energia, la cui origine attiene sempre a quel mondo altro, che andrebbe canalizzata. Si può essere disorientati, confusi, anche pazzi. O si possono fare cose da pazzi. Ci si può perdere nella nebbia o si può essere tempesta. Immaginiamo per un attimo che, anziché ‘fuggire dalla numerazione’, si attui il rifiuto di un eventuale identità assegnata, strappando il numero dalla maglia, per darsi la possibilità di assumerne una propria, più autentica. Come Malcom Little che al posto del proprio cognome ha messo una X. Il ribelle viene o no visto anche come un pazzo? Stiamo quindi ancora parlando del Matto dei Tarocchi. Ma non stiamo più parlando di Nettuno. Stiamo parlando di Urano. Un altro conosciutissimo significato del Matto dei Tarocchi è quello del ‘pellegrino’. Da qui tutta una serie di significati per associazione quali viaggio, percorso, cammino, eccetera. Ma anche iniziato, discepolo, eccetera. Vale la pena però ragionare su cosa comporta, o meglio comportava, essere un pellegrino. Immaginiamo quindi un devoto credente del Medioevo che da qui, dove siamo noi oggi, decida di fare il Cammino di Santiago. Ovviamente a piedi: siamo nel Medioevo. Tre mesi per arrivare a Santiago e tre mesi per tornare. Sei mesi di cammino attraverso paludi, foreste, montagne. Incontrando bestie feroci e briganti. Affrontando fame, sete, epidemie, intemperie. Non è detto che si sopravviva. Ma non basta. Andare via per sei mesi dal proprio villaggio, qualora si fosse riusciti a tornare, significava contare i morti per epidemie o carestie; e questo sempre che il villaggio fosse ancora presente, quando non spazzato via da una guerra o da una razzia. E il proprio campo, la propria casa, la propria moglie, sarebbero stati ancora disponibili? Andare in pellegrinaggio significava ritrovare al proprio ritorno un mondo completamente cambiato, trasformato, in cui qualcosa non si sarebbe ritrovato perché andato perduto, per sempre. Alla fine si sa: “Partire è un po’ morire.”[13] La scelta del pellegrino era quella, dunque, di morire al proprio mondo, per affrontare l’inferno del percorso e sopravvivervi, con lo scopo di tornare completamente trasformato in un mondo nuovo, purificato per tramite della perdita. E che dire del cane? “La prima funzione mitica del cane, universalmente attestata, è quella dello psicopompo, guida dell’uomo nella notte della morte, dopo essere stato il suo compagno nel giorno della vita.”[14] Il cane psicopompo, a questo punto, può rappresentare il nostro principio d’anima, amico fedele, che viene a prenderci per guidarci nel nostro viaggio infero e riportarci alla luce che avevamo smarrito. Dopotutto, a volte, come dice Bukowski: “L’amore è un cane che viene dall’inferno.”[15] Dopotutto, a volte, Il Matto dei Tarocchi è Plutone. Ma proseguiamo. Al Matto dei Tarocchi è associata la figura di San Rocco di Montpellier, che è patrono dei pellegrini. Ventenne, infatti, egli intraprende il pellegrinaggio per Roma dove imperversa la peste. Nel suo cammino, grazie alle sue doti taumaturghe, egli cura e guarisce malati. Per questo il suo patronato si estenderà anche alle epidemie e alle malattie gravissime. Egli stesso colpito dal morbo, si isola in una foresta dove un angelo lo curerà fino alla guarigione, mentre un cane gli porta ogni giorno un pane. Morirà poi in prigione accusato di essere una spia. Ma varrebbe la pena di dire perché straniero, diverso. Suoi attributi iconografici nelle sculture e nei dipinti sono quindi il cane, il bordone, ma anche una ferita all’altezza dell’alto della coscia. In particolare, riguardo alla ferita, è sempre rappresentato nell’atto di scoprire il ginocchio e metterla in mostra. Iconograficamente parlando, lo scoprire il ginocchio è simbolo d’iniziazione. L’iniziato è colui che abbandona il secolo, si fa fuori dal mondo, si emargina. Probabilmente mosso dalla necessità di curare la propria ferita. Come San Rocco che colpito dalla peste si isola nella foresta per entrare in contatto con il principio angelico risanante dell’anima. Nel Matto di Marsiglia la ferita è abbozzata sulla coscia con tratti che hanno l’aria di essere uno scarabocchio, quasi costringendoci ad interpretarne il disegno. Chi è che vuole vedere la propria ferita? Chi è che non ce l’ha? Chi è che nel suo tema non ha Chirone? Chirone il Maverick, il diverso, il fuori dal mondo. Come San Rocco e come il Matto dei Tarocchi. Chirone la ferita. Come in San Rocco e come nel Matto. Chirone il guaritore. Come San Rocco. E il Matto? Il Matto è il discepolo che si farà Maestro e guaritore nell’Eremita, ma solo dopo che avrà curato la sua ferita. Ma se il Matto può essere sia Nettuno che Urano, sia Plutone quanto Chirone, va forse cercata altrove la sua collocazione. Il Matto non è nessuno di questi pianeti: è semplicemente tutti questi pianeti. Nel suo partecipare di ognuno di questi archetipi, il Matto può rappresentare quindi l’intero mondo transpersonale. Come psicopompo può inoltre incarnare Mercurio, in veste qui di nostro rapitore, principio di evasione dalle forme assegnateci, per andare verso il nostro Sole. Il Sole in potenza, nascente, che si può vedere sorgere proprio dalle zampe anteriori del cane. La dinamicità della carta del Matto (è l’unico Arcano Maggiore che cammina) può inoltre essere ascritta a quelle fasi della vita in cui qualcosa mette in movimento l’intero nostro sistema, destabilizzandolo, verso un nuovo ordine. Per esperienza, sempre, quando appare questa carta in un tiraggio, c’è qualcosa che attiene a questo tema. Il Matto sta ad una lettura come i transiti stanno all’Astrologia. Il Matto di Marsiglia non si limita quindi a rappresentare l’intero nostro mondo transpersonale, ma lo collega direttamente al nostro Sole, tramite Mercurio, incarnando concretamente la fase in cui questo contatto si sostanzia, il transito planetario. È il caso di rinunciare a tutta questa ricchezza di significato in nome della corrispondenza? È proprio la non catalogabilità del Matto a sollecitarci in questa direzione: il vivere la relazione con e tra i simboli, disinnescando le ansie censuranti dell’intelligenza-materialità di Bergson.

Faccio per concludere un altro esempio. Un altro ambito interessante di ricerca è quello dato dagli elementi: Fuoco, Terra, Aria, Acqua. In Tarologia ai Bastoni si assegna generalmente il Fuoco, ai Denari la Terra, alle Coppe l’Acqua e alla Spade l’Aria. Lavorando sugli Onori degli Arcani Minori, le figure, ho trovato alcune analogie e partendo da queste ho riscontrato un possibile accostamento di Onori e segni astrologici. Darei due elementi rapidi di orientamento scusandomi per il mio essere brusco, ma lo spazio è quello che è. L’ordine dato agli Onori è Paggio, Regina, Re e Cavaliere laddove io considero, in linea di massima, nel Paggio il grado di Apprendista, nella Regina il grado di Discepolo e nel Re il grado di Maestro. Il Risultato di questo lavoro viene poi consegnato al Cavaliere che lo reca vuoi nel mondo, vuoi ad un successivo gradiente di sviluppo. Quindi la correlazione dei segni astrologici interesserebbe solo i primi tre Onori di ogni seme (Paggio, Regina e Re). A tutti gli effetti quello che ho riscontrato è che le triadi elementali dei segni in qualche modo sono correlabili con le rispettive triadi di Onori. Altra annotazione necessaria. Tutto ciò che è o si verifica nella parte sinistra di una carta ha natura yin (passivo, ricettivo, inconscio, femminile, attinente al passato, eccetera), tutto ciò che è a destra è yang (attivo, conscio, maschile, attinente al futuro, eccetera). Lo stesso dicasi per piedi (andare) e mani (fare). Ovviamente troveremo mani sinistre nella parte destra o piedi destri nella parte sinistra. E lì bisognerà entrare in relazione. Faccio solo l’esempio della Terra quindi e vi rimando in altra sede per l’intero lavoro.

  Nei Denari-Terra il Paggio trat-tiene, con la mano attiva, il Denaro, nella parte passiva della carta. Il che può significare che industriosamente produce i suoi beni, senza rivolgerli però all’esterno. Li introverte, li accumula. C’è l’idea del possesso e dell’identificazione con il proprio prodotto. Il Denaro può assumere infatti, al contempo, l’idea dell’idolo e dello specchio. Nell’antichità sia gli idoli che gli specchi erano d’oro, con tutto quello che questo porta con sé nell’ambito delle analogie. Anche il cappello, che nel Medioevo era simbolo di status, si presenta in una curiosa foggia. La tesa dalla parte del Denaro è più corta e rigida, mentre dall’altra parte è più lunga e cade sulla spalla. L’identità-cappello sembra più solida quando sostenuta dal riconoscersi nel proprio possesso, ma quando si avventura all’esterno tende a richiudersi, per trincerarsi nelle proprie sicurezze. La tesa del cappello sembra piegarsi per celare il Denaro al mondo esterno. Persino la spalla sinistra, che vediamo più grande, sembra ingobbirsi quasi a proteggere, a nascondere. La diversa dimensione della tesa ci può anche parlare di un potenziale individuativo inespresso. Il Denaro sotto-terra può indicare quindi un patrimonio di risorse inespresse perché proiettate in beni e materia. Ultimo, ma non ultimo dato, il nome della carta scritto lungo il lato destro della stessa (che fa eccezione in quanto il nome di tutti gli altri Onori è scritto nel cartiglio) ancora ci riporta verso la necessità di una chiara manifestazione di una propria identità scevra da proiezioni (il nome-identità è nella parte destra). Il Paggio di Denari si mostra comunque a noi come un personaggio calmo, placido, per nulla tormentato. La carta ci presenta una potenziale via d’uscita da questo primo quadro che si esprime, da una parte con i piedi divergenti, che ci indicano l’esistenza di una domanda: “Resto di qua o vado di là?”; dall’altra parte con la mano che regge la cintura, indice di forte volontà e capacità di concretizzare. Non sembra esserci, ad ogni modo, alcuna fretta di scervellarsi in enigmi esistenziali, mentre le forti gambe fanno presa sulla solita terra. Osservando ancora il posizionamento delle gambe, possiamo notare un impercettibile scarto all’indietro della gamba sinistra, nella parte attiva della carta, a significare che il movimento è prudente (si tasta il terreno camminando all’indietro) e quasi mai conscio o realmente voluto. Anche l’operosità della mano destra, tutta intenta al possesso, relega il ruolo della volontà, nella mano sinistra uidQ, da espressione a potenzialità. Possiamo dunque dire che il Paggio di Denari è il segno del Toro?

La Regina di Denari prende in consegna il Denaro dal Paggio e sembra perfezionarlo: è più grande, più lucente. La dedizione della propria opera sembra assorbirla completamente. La foggia della corona, a mo’ di cuffia che letteralmente tira i capelli, può rivelare ossessione per l’ordine, ma anche un missionario atteggiamento monacale nei confronti del proprio compito. Ancora il tema dello specchio, che ci dice che il compito coincide con l’identità. La Regina di Denari ha inoltre il suo seggio, il suo posto nel mondo. Ancora, la particolare forma della corona ci rimanda alle finestre presenti nella Torre della Casa-Dio. Torre in aramaico si dice Magdala. Maria di Magdala, la lavatrice di piedi, che ci reca il tema del servizio. Sono tutte attribuzioni del segno della Vergine che dando casa a Saturno ci accompagna anche al tema del potere. E qui abbiamo una Regina che ci dice che il proprio potere emana dal proprio compito. Un potere che è di servizio nei confronti del compito (il Denaro è nella mano destra) ed è gregario (lo scettro è nella mano sinistra) in quanto derivante dal Re: Regina perché moglie di Re. Ma il Re non conta, solo il compito conta. Lo scettro, che è tutto proiettato nella parte alta e destra della carta, ha infatti la propria origine nel ventre, quasi a dire che l’espressione del proprio fare nel mondo dovrebbe integrarsi con le proprie parti lunari molli, anche per inumidire la precisa, composta, austera atmosfera della carta.

Il Re di Denari prende il Denaro dalla sua Regina e lo lascia scivolare, con gesto tanto noncurante quanto sicuro, all’altezza del ventre. Qui il Denaro si duplica (moltiplica) in un Denaro che splende in cielo, visibile e disponibile per tutti. La sua corona, che è più un cappello, ci dice anche che il suo è un potere che deriva dalla propria autorevolezza: non ha bisogno di emblemi per essere riconosciuto. Egli è un realizzatore, un homo faber. In che cosa s’identifica allora il Re di Denari? La mano sinistra scopre il ginocchio, quindi il Re di Denari è un iniziato. Il Re di Denari, a differenza di Paggio e Regina, non s’identifica in quello che fa, ma nel perché lo fa. È il Saturno Signore dell’Età dell’Oro: il Capricorno. Per gli altri segni e gli altri Onori ci vediamo alla prossima occasione. Teniamo aperta la relazione. Grazie.

 

Gino Faraco

 

[1] dal film “Shakespeare in Love” di John Madden, 1998.

[2] Anonimo, “Meditazioni sui Tarocchi”, Estrella De Oriente, 2012, Volume 2 pag. 238.

[3] Anonimo, “Meditazioni sui Tarocchi”, Estrella De Oriente, 2012, Volume 2 pag. 239.

[4] H. Bergson, “L’evoluzione creatrice, Estratti, tr. L. Ferrarino, Laterza, 1949, in Anonimo, “Meditazioni sui Tarocchi”, Estrella De Oriente, 2012, Volume 2 pag. 240.

[5] F. Alaimo, “Tarocchi e Zodiaco”, Cerchio della Luna, 2012, Volume 2 pag. 20.

[6] Anonimo, “Meditazioni sui Tarocchi”, Estrella De Oriente, 2012, Volume 1 pag. 128.

[7] Termine coniato da Vincent Beckers, tarologo belga, non appartenente a nessuna lingua che volentieri prendo a prestito e che può essere tradotto come filosofi, pensatori, fabbricatori di immagini e che con esse comunicano.

[8] La Cabala lo porta addirittura nel suo nome, cfr. Gershom Scholem in “La Cabala”, Edizioni Mediterranee, 1992.

[9] dal film “Mad Max: Fury Road” di George Miller, 2015.

[10] cfr. Lisa Morpurgo, “Introduzione all’Astrologia”, TEA, 1982.

[11] G. Pelosini, “I paradossi del Matto”, in Atti del 10° Convegno di Astrologia Umanistica e Psicologica Eridanoschool, 2018, pag. 93.

[12] G. Pelosini, “I paradossi del Matto”, in Atti del 10° Convegno di Astrologia Umanistica e Psicologica Eridanoschool, 2018, pag. 94.

[13] Edmond Haracourt, “La canzone dell’addio”.

[14] Chevalier-Gheerbrant, “Dizionario dei simboli”, Rizzoli, 2015, pag. 185.

[15] Henry Charles Bukowski, “L’amore è un cane che viene dall’inferno”, Guanda, 2007.