L’amore è muto e solo la poesia lo fa cantare
Novalis

Quindi solo il poeta può parlarci d’amore, perché ne conosce il mistero e ce lo trasmette tramite il verso che è fatto di metafore, immagini e simboli.

Tra questi poeti, Esiodo è quello che ci ha parlato della nascita di Afrodite, la dea dell’amore, della seduzione, della bellezza, della femminilità. Afrodite però nasce da un atto assai violento, che è la castrazione di Urano da parte di suo figlio Saturno.

Dunque tutto ciò che precede la venuta al mondo di Afrodite – rifiuto, dolore, violenza – è molto diverso rispetto a quelle che sono le caratteristiche della dea: amore, seduzione, bellezza.

Esiodo nella Teogonia ci racconta che dal vuoto iniziale si manifesta Gea, la Terra, la quale genera tra gli altri anche il Cielo (cioè Urano), che poi diventa il suo sposo. I due hanno molti figli.

Quindi la peculiarità di Gea e di Urano è indubbiamente quella della fertilità, caratteristica che poi vedremo anche in Afrodite.

Urano è estremamente fertile, Gea è estremamente fertile e così ogni notte Urano copre Gea e ogni notte viene concepito un nuovo figlio.

Liz Greene ci dice che Urano non gradisce i figli che nascono dall’unione con Gea, la parte materiale, poiché sono giganteschi, brutti, spaventosi, repellenti e non corrispondono a quanto lui ha in mente.

“Questi figli non mi piacciono”, ci dice Urano, “non sono come li avrei voluti, ossia perfetti, quindi li rigetto nella Terra, nel corpo della madre e non li voglio vedere, li rifiuto”.

In questo rifiuto, tuttavia, c’è anche una spinta a far regredire, a non far crescere la propria prole.

Ora Gea non ne può più e si rivolge ai figli più grandi, i Titani, e l’unico che risponde alla richiesta materna di mettere fine a tanta sofferenza è Saturno, che la madre arma di falcetto affinché eviri il padre.

Abbiamo un padre che rifiuta e di fatto imprigiona nel femminile i propri figli, una madre che incoraggia il figlio a mettere fine alle violenze paterne e il figlio che accetta di ribellarsi al padre, facendo anche in modo che vada perso per sempre quello che Rosamaria Lentini chiama “l’utero primordiale nel quale rifugiarsi e scomparire”.

Così quando Urano sta per giacere con Gea, Saturno gli taglia i testicoli. Il sangue gocciola dalla ferita, penetra nella terra e nascono le Furie.

Tuttavia da questo atto di violenza e di separazione che si radica in un atto di rifiuto affettivo viene alla luce anche Afrodite.

Saturno, infatti, scaglia nel mare i genitali recisi di Urano e dall’unione tra lo sperma e la schiuma del mare scaturisce Afrodite.

Quindi da questo atto di castrazione eseguito dal figlio, Saturno, sui genitali del padre, Urano, nascono da una parte le Furie, ossia il risentimento, il desiderio di vendetta per la ferita subita e dall’altra Afrodite, ossia l’amore, l’accoglimento della ferita.

Esiodo ci racconta che Afrodite esce già fanciulla dal mare e che, non appena tocca la sabbia dell’isola sulla quale approda, questa sabbia diventa prato, fiorisce, immagine della vita che rinasce ogni primavera, che si rinnova continuamente.

Afrodite, pertanto, racchiude in sé un simbolo di rinascita, di fertilità, di fecondità e un grande potenziale creativo.

La vita è sempre qualcosa che si rinnova. Ogni nuova nascita si apre con il parto, che è qualcosa di crudele, di violento, che separa, che taglia.

Quindi c’è l’atrocità del parto ma anche la bellezza di un figlio che viene alla luce, e c’è la constatazione che con ogni nuova esistenza il mondo ricomincia e ogni cosa acquista un nuovo significato.

Anche se di fatto Afrodite non ha né un padre né una madre, è la figlia di Urano perché è perfetta, anche nel corpo, è una dea feconda, creativa e libera.

Abbiamo visto che Afrodite nasce da un atto di castrazione che si incardina su di un iniziale atto di rifiuto, e da questa ferita che sta alla base della sua nascita viene alla luce proprio la dea della bellezza.

Qui mi volevo inserire con una lettura dell’opera dell’artista Alberto Burri, le cui creazioni potete vedere a Città di Castello (PG), sia in centro, a Palazzo Albizzini, che nell’immediata periferia, agli ex-Seccatoi.

Di Burri si è occupato recentemente Massimo Recalcati, autore di un libro su “Il Grande Cretto di Gibellina”, un monumento di cemento dell’artista tifernate posato su ciò che resta della vecchia città di Gibellina (TP), completamente distrutta dal terremoto del 1968.

L’idea che stava alla base era sia quella di ricostruire la planimetria della città che di dare sepoltura, di creare come un lenzuolo bianco posto sopra le macerie.

Recalcati guarda a tutti i lavori di Burri con lo sguardo dello psicanalista e vede che non solo nel Grande Cretto ma anche nei ferri, nei sacchi, nei cretti, nelle combustioni, nelle plastiche c’è una tematica che ricorre: quella della ferita, del trauma, della frattura, della rottura, della lacerazione, dello strappo, dell’urlo.

Il pittore umbro, però, diceva spesso che la sola cosa che gli interessava era la bellezza. Non lo affascinava altro, solo la bellezza.

Recalcati dice che Burri ha fatto qualcosa di estremamente rivoluzionario, ossia ha presentato una visione della bellezza completamente diversa rispetto al passato.

Recalcati ci ricorda che nella storia dell’arte classica il bello corrisponde a caratteristiche di perfezione della forma, di armonia, di equilibrio e non lascia spazio alla ferita, al trauma.

Come se la bellezza, spiega Recalcati, escludesse la presenza traumatica del reale e fosse una sorta di scongiuro nei confronti della castrazione.

Laddove per castrazione si intende l’esperienza che noi facciamo della nostra ferita.

Quindi sarebbe come dire: se c’è bellezza non c’è ferita, se c’è ferita non c’è bellezza.

In Burri questo non è vero. Per Burri la bellezza non esclude la ferita, non esclude il trauma del reale.

Abbiamo visto che Afrodite stessa, dea della bellezza, nasce dalla ferita. Quindi la bellezza non rifiuta la ferita ma la ospita.

Anzi Recalcati ci dice che è proprio la radicalità della ferita a rendere la bellezza più struggente.  

Burri nel cercare la bellezza accoglie il trauma, la ferita nei suoi lavori, che ci appaiono comunque perfetti.

Quindi l’opera d’arte cosa fa? Afrodite cosa fa? La bellezza cosa fa? La creatività cosa fa? L’amore cosa fa? Rende feconda la ferita, rende fecondi i resti del trauma.

Quando Afrodite si manifesta nasce la primavera e in lei è insita la ferita accolta e resa feconda.

Allo stesso modo il Grande Cretto di Gibellina contiene la ferita, ricopre le macerie del terremoto, dà sepoltura e come un lenzuolo bianco si stende sopra la distruzione, custodendo il trauma e l’orrore.

Burri con il Grande Cretto ci dice che della ferita resta la cicatrice.

Quindi i resti delle ferite sono le cicatrici, delle quali possiamo fare qualcosa di fertile, di prezioso.

Afrodite ha accolto la ferita che sta alla base della sua nascita e l’ha resa feconda. È lei che ci insegna ad amare ma prima di tutto ad amarci – infatti segno dell’accoglimento della ferita affettiva è un rinnovato amore di sé – e a prenderci cura di noi stessi.

Afrodite mostra che nell’atto di amarci noi ci riconosciamo e possiamo poi posare lo sguardo sull’altro da noi, amandolo e affermandone la diversità, consapevoli che per mantenere vivo questo scambio continuo ci vuole molto distacco.

Nella dea dell’amore non c’è rifiuto dell’altro perché diverso da come lo si vorrebbe, ma riconoscimento dell’altrui individualità e capacità di preservarne il mistero.

Afrodite, dunque, ci dice che l’amore porta con sé il germe della rinascita e dell’alterità.

L’incontro d’amore è l’incontro nuovo tra due diversità, tra due libertà.

Per Recalcati l’amore è proprio l’esperienza dell’esposizione incondizionata all’assoluta libertà dell’altro.

Qui ritroviamo un altro aspetto fondamentale della dea narrato dal mito: quello delle sue numerose relazioni amorose, dei molti tradimenti e della libertà collegata al fare esperienza del tradimento.

L’esperienza del tradimento, ci ricorda Recalcati, attesta, anche se in modo traumatico, l’esistenza della libertà, manda all’aria ogni idea di possesso dell’altro, scardina il pensiero di ritenere colui che amiamo una nostra proprietà e l’illusione che questi non ci abbandonerà mai e non ci ferirà mai.

Afrodite ci dà testimonianza anche di ciò, lei che è una dea complessa e piena di sfaccettature, la dea che porta con sé la ferita, il vento di primavera, l’alterità e la libertà.  

di Simona Cernicchi