Chi mi legge o mi ascolta in questo momento quasi certamente condivide con me la convinzione che l’astrologia orientata all’individuo sia uno strumento di conoscenza utile e potente, in grado di portare alla luce questioni e risorse implicite che possono essere di grande aiuto per coloro che a noi si rivolgono.

Per contro, l’utilità del counseling, all’interno di un percorso – come quello di Eridanoschool – che consegna al mondo astrologi professionisti molto preparati dal punto di vista della teoria e della tecnica, deriva dalla ripetuta constatazione che gli allievi tendono ad applicare ciò che hanno appreso in un modo che, se è decisamente valido dal punto di vista dei contenuti, risulta spesso povero dal punto di vista della relazione con un cliente reale.

Da un lato ciò deriva dalle profonde differenze di origine fra l’astrologia come disciplina antichissima e il counseling come approccio molto giovane. L’astrologia tende a concentrarsi sul passato e sul futuro, il counseling sul presente. L’astrologia legge e interpreta, il counseling ascolta e rispecchia, in particolare all’inizio. L’astrologia imposta schemi e categorie, il counseling dà voce a ciò che emerge nel singolo individuo e, pur tenendo le fila, impara a navigare a vista. I contenuti dell’astrologia sono spesso pezzi da novanta, il counseling lavora su piccoli e concreti contenuti, sulle piccole consapevolezze e sui piccoli passi.

Dall’altro lato gli allievi, né più né meno come i clienti all’inizio, si sono accostati all’astrologia cercando soddisfazione al bisogno di ordine, al bisogno di prevedibilità, al bisogno di risposte. Sulla scorta anche di questi bisogni, assolutamente umani e condivisibili, spesso appaiono impegnati a dimostrare che l’astrologia funziona e che tutto torna, il che può indurli a dimenticarsi di accogliere ed ascoltare realmente un cliente che ha intenzione di cambiare, o che sta cercando di decidere se cambiare qualcosa nella propria vita oppure no.

Al pari di ogni altra metodologia interpretativa o diagnostica, la lettura del tema di nascita assolve – fra le altre – la funzione di contenere la complessità esistenziale dell’Altro al fine di renderlo conoscibile e riconoscibile. Il rischio, quando si passa dalla teoria alla pratica, è che il sistema di ipotesi generato dalla lettura finisca per essere utilizzato come punto di arrivo invece che di partenza. In altre parole, il rischio è che la nostra osservazione dell’Altro proceda alla ricerca di indizi che convalidino la lettura, trascurando più o meno consapevolmente le reazioni e/o le caratteristiche del cliente che stridono rispetto al sistema. Il fatto che le ipotesi siano necessarie e al tempo stesso possano imbrigliare l’attenzione e l’osservazione non costituisce un problema solo per le scienze sperimentali o sociali.

Occorre poi tener conto dell’impatto che la comunicazione della lettura del tema di nascita esercita sull’Altro che ascolta. Si tratta infatti di un impatto ambivalente, poiché se da una parte il cliente potrà sperimentare soddisfazione o addirittura sollievo nel veder finalmente “inquadrate” certe caratteristiche proprie percepite in maniera semi-consapevole o magari con disagio o frustrazione, dall’altra le immagini e le sensazioni evocate in lui dalla lettura influenzeranno inevitabilmente il suo giudizio su di sé.

Pertanto, nel processo di conoscenza dell’Altro che ha luogo nella consultazione, la strada che presenta le maggiori probabilità di risultare utile è quella che si impegna a governare la tensione fra il dare il giusto peso e il non dare troppo peso a quello che leggiamo sul tema di nascita (è l’approccio che i fenomenologi hanno definito di “messa fra parentesi”). Una strada scomoda, in quanto la comprensibile tendenza è sempre quella di approdare su un terreno un po’ più stabile e sicuro. Mettere fra parentesi (Husserl) significa tener conto di ciò che si vede mantenendolo temporaneamente sullo sfondo.

Occorre anche tenere presente che nel momento in cui il cliente si presenta da noi – anche quando ci consegna una delega totale: “leggimi il tema così mi dici chi sono” è il messaggio più o meno implicito – in realtà è già in possesso (che se ne renda conto oppure no) di una teoria su di sé elaborata sia sulla base delle esperienze vissute che delle soluzioni tentate per integrare sofferenze pregresse. Perciò un atteggiamento di ascolto e di accoglienza serve anche a veicolare al cliente il messaggio “no, dimmi prima tu, semmai, chi pensi di essere, ti assicuro che ne terrò conto”. E naturalmente serve se riusciamo a mantenere la parola.

La relazione formativa di counseling rivolta agli allievi astrologi comprende certamente una parte dedicata alla teoria: il counseling ha infatti una sua storia e una filosofia che si traduce in criteri operativi molto chiari e rivoluzionari; entrambe si pongono a correttivo di abitudini umane e culturali consolidate (si pensi alla pratica dell’astensione dal giudizio, abilità personale e professionale molto complessa).

Il cuore del metodo di formazione che sto strutturando in questi anni, tuttavia, è costituito – oltre che dalle esercitazioni sulle competenze presentate di volta in volta nella teoria – dai due laboratori di gruppo, vale a dire quello di crescita personale e quello di consultazione. Il primo consiste nel lavoro che gli allievi svolgono su di sé a partire dal proprio tema di nascita e con il supporto del gruppo, mentre il secondo – attivabile solo da un certo punto della formazione astrologica in poi – consiste nella condivisione di un caso di consulenza portato dagli allievi, utile ad elaborare le difficoltà e le impasse che sono state riscontrate nel corso della consultazione.

Vale la pena precisare che nel counseling “elaborare” non ha mai il significato di “discutere su, elucubrare”, bensì quello di acquisire consapevolezza su sensazioni, sentimenti e pensieri che girano intorno alle difficoltà che l’allievo condivide.

Una parte importante della formazione attraverso i laboratori consiste nel guidare gradualmente gli allievi a rendersi conto che, nella maggior parte dei casi, i clienti arrivano portando un desiderio o una difficoltà formulati in modo molto vago e generale, come anche una prima serie di informazioni che a guardar bene è lacunosa, parziale e non di rado contraddittoria; malgrado ciò, si può essere tentati di credere di aver già colto velocemente tutti i punti del tema (magari sollecitati dai transiti) chiamati in causa. Il che può ben essere vero, certamente: in questo modo tuttavia si corre il rischio di concentrarsi solo su tali aspetti, modulando le domande successive di conseguenza; è invece fondamentale per l’allievo comprendere che, in prima istanza, lo strumento chiave è quello delle domande aperte che chiamino in causa il meno possibile il tema di nascita. Le domande aperte servono a chiarire il contesto e soprattutto a comunicare una disponibilità all’ascolto, oltre a restituire un senso dilatato del tempo: tutti elementi che hanno come scopo quello di mettere il cliente a proprio agio, così che si renda disponibile a fornire informazioni più coerenti fra loro o ad approfondire quelle già fornite.

In ogni caso, anche dopo aver cominciato ad esaminare alcune configurazioni che sembrano essere coinvolte dal quesito iniziale posto dal cliente, rimane importante non perdere di vista il resto del tema, come anche – e direi in primo luogo – ciò che accade nel presente del colloquio, così da rimanere pronti a cambiare direzione qualora emergano informazioni che puntano altrove. Nessun cliente, infatti, rivela mai subito tutto ciò che dal suo punto di vista è rilevante per la questione che lo interessa, e questo non per cattiva volontà, ma per graduale scoperta di ciò che è davvero importante per sé: se lo blocchiamo con risposte o suggerimenti troppo veloci per i suoi ritmi, tale scoperta non ha modo di avvenire.

Di fatto ogni tema di nascita, sulla carta, è una matrice finita di temperamenti, e l’individuo che abbiamo di fronte (cliente, allievo o compagno di corso che sia) è il risultato della relazione sempre aperta fra tale matrice e la propria irripetibile storia di vita.

Nel corso della simulata di consultazione in cui l’allievo condivide un proprio caso, il lavoro si concentra momento per momento sulle modifiche verbali, paraverbali e non verbali che il cliente ha via via manifestato durante la narrazione di sé, evitando quindi di concentrare l’attenzione sempre e solo sul tema di nascita – il quale tuttavia non viene dimenticato e al quale si è pronti a tornare ogni volta che – nel resoconto dell’allievo – il cliente fornisce elementi che evocano questo o quell’aspetto del suo tema.

Questo tipo di addestramento è molto utile anche per imparare ad utilizzare un linguaggio meno tecnico dal punto di vista psicologico, più aderente a ciò che avviene nel qui e ora; l’allievo, inoltre, in questo modo può verificare personalmente che non vi è perdita di profondità nell’utilizzare un linguaggio concreto – anzi, spesso è il contrario.

L’ascolto c.d. “attivo” – chiave del counseling rogersiano nonché insieme di tecniche, atteggiamenti e qualità personali che ho avuto modo di citare in altre occasioni – è un ascolto comprensivo nel senso più ampio del termine. “Comprensivo” è un termine che in italiano fa pensare alla bontà laddove questa comincia a sconfinare in qualcosa che somiglia a debolezza e parzialità (“è così comprensivo/a”). Quando insistiamo a tradurre nei nostri schemi mentali ciò che l’altro ci rivela, invece di impegnarci a cogliere nel racconto dell’altro, con l’aiuto di domande realmente aperte, la traccia dei suoi personali schemi mentali, stiamo in realtà pseudo-ascoltando e ci illudiamo di aver compreso. Quando invece la nostra mente riesce ad adottare un’attitudine autenticamente comprensiva, quello che abbiamo la possibilità di ottenere è proprio una maggiore imparzialità. Questo succede perché il movimento di comprensione di fatto ci allontana da noi stessi, ci allontana da una prospettiva egocentrica e ci consente di avere un quadro più ampio. Non è un caso, evidentemente, che la parola “comprensivo” in italiano significhi sia “capace di capire” che “capace di contenere, accogliere; inclusivo”.

I segni, i pianeti e gli aspetti astrologici non generano direttamente emozioni negli esseri umani: l’astrologia è una disciplina cognitiva che si avvale al 95% della parola e di un codice. Le emozioni sono tuttavia generate indirettamente dalla traduzione di quel codice in immagini simboliche, e dalle convinzioni e dai giudizi che invariabilmente emergono negli allievi a proposito di se stessi.

La graduale memorizzazione del proprio tema di nascita tende a produrre convinzioni limitanti legate alla natura degli aspetti ivi presenti: un trigono Venere-Giove tenderà a sollecitare convinzioni molto diverse rispetto a un quadrato Sole-Nettuno, il che non toglie che possano essere “diversamente limitanti”.

Provo a spiegarmi meglio. In questi anni ho avuto l’impressione, più di una volta, che parte della tensione/inquietudine manifestata dagli allievi possa derivare, in realtà, da un bisogno indotto dalla interpretazione/conoscenza del proprio tema di nascita. È come se a volte gli allievi sentissero di “dover” cambiare per realizzare determinate potenzialità o superare determinati blocchi indicati dalla carta, e il constatare quanto sia difficile riuscirci, di conseguenza, procura loro frustrazione e in certi casi addirittura sofferenza; solo che non è ben chiaro quanto tale esigenza fosse avvertita prima che venissero effettivamente a conoscenza di certi aspetti del proprio tema di nascita.

Attenzione: non sto dicendo che tali potenzialità o blocchi non ci siano, né che qualcuno (loro stessi o qualcun altro) abbia sbagliato ad interpretare; dico però che se la conoscenza del nostro tema insinua in noi il dubbio di non essere attualmente all’altezza di ciò che presumibilmente potremmo o dovremmo diventare, allora l’astrologia non sta aumentando la nostra libertà o le nostre possibilità di scelta, al contrario le sta limitando, in quanto sta avendo un impatto sulla nostra autostima. Non serve e non funziona “sforzarsi” di evolvere per raggiungere qualcosa che al momento esiste soltanto sulla carta; funziona di più, in termini di crescita, sapere a che punto siamo ora, senza giudicare.

In questo senso il lavoro di counseling, con la sua forte presa sul presente, può guidare l’allievo a prendere consapevolezza di ciò che sente autenticamente di voler fare in merito ad una data situazione – e a farlo indipendentemente da quello che il suo tema di nascita sembra sulle prime suggerire: all’interno del laboratorio di crescita personale è possibile simulare tale comportamento interagendo con gli altri componenti del gruppo/classe. Tale simulazione, apparentemente “finta”, permette in realtà all’allievo di misurarsi con se stesso su un piano di realtà che – rispetto alla realtà “vera” – non è tanto fittizio quanto invece protetto, vale a dire sicuro. È un fatto che difficilmente sappiamo chi siamo e cosa vogliamo finché non proviamo ad agire.

Al termine della simulazione, ciò che risulta sempre interessante è tornare al tema di nascita dell’allievo che ha lavorato e rileggerlo alla luce di quello che è appena emerso, perché questa nuova lettura mostra prospettive, risorse e orizzonti che prima non comparivano e che comunque non tradiscono la simbologia dei segni e dei pianeti coinvolti.

Concludo – per il momento – con un ulteriore cenno all’importanza delle domande aperte (quelle domande, ricordo, che non richiedono un sì o un no come risposta): la loro formulazione deve essere tale da consentire una reale esplorazione delle sensazioni, delle emozioni o dei pensieri, perché ciò garantisce un progressivo aumento della consapevolezza da parte del soggetto. Si tratta, in sostanza, di addestrare gli allievi alla capacità di interrogarsi e di interrogare in modo costruttivo, auspicando che, nel medio termine, l’acquisizione di questa fondamentale competenza possa gradualmente sostituirsi all’abitudine, compulsiva e rassicurante, di definire troppo rapidamente e rigidamente se stessi e gli altri.

di Angela Leonetti