La parola mito deriva da quella greca muthos che vuol dire racconto, narrazione, storia fantastica. Oggi nella stratificazione delle innumerevoli interpretazioni mitologiche e nell’esegesi letteraria delle fonti classiche si è perso quel contatto originario col mito, inteso in modo semplice (ma non semplicistico) ed immediato come favola, racconto per l’anima. 

Nella denominazione ‘favola’ non c’è per gli antichi alcun elemento denigratorio, oggi noi moderni releghiamo le favole al mondo infantile, dando così una valutazione spregiativa e marginale.
Nel mondo classico il mito è immediato, comprensibile e soprattutto “godibile”. Nell’antichità greca il racconto mitico nasce solo per tradizione orale, i poemi di Omero erano destinati all’ascolto e non alla lettura, il mito era per tutti, per la collettività.

I cantori come Demodoco venivano invitati ad intrattenere l’intera comunità, i grandi e i piccoli e loro…raccontavano, rallegravano, tenevano compagnia, in poche parole deliziavano!

In questa prospettiva di puro piacere del mito, delizia di una favola, godimento dell’anima fine a sé stesso viene proposta la piacevole ed esilarante lettura di un brano di Giuseppe Marotta, giornalista e scrittore napoletano oramai scomparso.

E’ un modo ironico ma non irriverente, a mio avviso, di accostarsi al mito, alla favola.

Con la convinzione personale che ogni variante mitologica, compresa quella ironica, possa indurre tutti noi a godere del conforto che il Bello, la Poesia possano ancora oggi arrecare gioia “all’umano cuore”.

LA STORIA

“Ma questo Saturno, in definitiva chi era?”, disse il barbiere don Antonio Pagliarulo, sogguardando (era strabico) l’ex bidello e ogni cosa intorno. 

Don Federico: “Chi era? Saturno? Figli miei, quello era senza dubbio un’autorità costituita, un assoluto regnante, un fondatore greco-romano che aveva creato il mondo di quell’epoca quando nessuno ancora ci pensava! Rendo l’idea? Prima di Adamo ed Eva, prima di Maometto, Saturno arriva, guarda, vede che non c’è né terra né cielo, e Saturno dice fra sé e sé: Ma questo è un deposito o una dogana? Si leva la giacca, si leva il gilet e si mette a lavorare. Signori miei, quello in tre giorni fece l’Olimpo e la Tessaglia e il globo secondo l’antica mitologia!”.

Don Catello Debbiase, il ciabattino, contentissimo perché aveva rintracciato mezza sigaretta nel suo berretto, esclamò: “Gesù, voi che ne dite? Ma se Saturno si levava anche la camicia, con rispetto parlando, faceva pure Napoli e Nuova York!”.

“Faceva come gli pareva e piaceva, compare”, disse don Salvatore Cadamartori, il fruttivendolo “guappo”, già palpitante di una morbosa curiosità. Egli contrasse le mascelle, e, rivolto al Sorice, disse: “Continuate…dunque Saturno ci si mise di casa e di bottega.

Ma abbiate pazienza, che tipo era questo Saturno?”
“Bello, don Salvatore carissimo, un pezzo d’uomo che non avete idea. Le sette meraviglie, una barba verace, riccia e completa… certe spalle…una pancia di signore nato…un portamento! In breve, Saturno mise le cose in regola: da una parte l’Oceano, dall’altra la campagna e tutto; ma poi se ne poteva stare con le mani in mano? Lui che era Saturno! Il dio pensò: ‘Adesso mi sistemo, metto su casa…piglio e mi sposo Rea’. Fu un matrimonio che ancora se ne parla, mi dovete credere”.

Don Rosario Nepeta, il gobbo, disse: “Aspettate un momento:questa Rea era bionda o bruna?”
“Era bionda ma era pure bruna”, rispose don Federico.
“Io ora vi spiego….Era, quella era la Terra…quella perciò non aveva un colore preciso. Figuratevi…una donna di prim’ordine; un’intera persona da sbalordire…se no come la mettevano nei musei?”.
“ Don Saturno, con salute e per cento anni!”, gridò eccitato Vincenzino Aurispa; costui era uno scattante fattorino telegrafico sui diciotto anni, quando strizzava l’occhio lo faceva con tutto il corpo.
“Prego”, disse don Federico. “E dunque appena sposatisi gli incominciarono a nascere i figli…una coppia simile, vi immaginate! Quelli fecero vagoni di figli, fecero l’ira di Dio. Prima i giganti ciclopici, un’esagerazione. Uomini alti come Vesuvio, con cento mani e con un solo occhio in mezzo alla fronte….”.

“Chissà come se lo tenevano riguardato…”, osservò don Alfredo Tescione, il carbonaio toccandosi in tasca i massicci occhiali. Aveva lo sguardo di bambino infelice che deriva dall’eccessiva miopia, le immagini lo picchiavano arrivandogli d’improvviso, tutte insieme, ed egli ormai non reagiva più a questo sopruso.
“Dunque?”, disse don Antonio Pagliarulo.

“Dunque di questi giganti ciclopici Rea ne partorì dodici maschi e dodici femmine”, riprese don Federico Sorice. “Don Rosario, statevi zitto! Siamo nella mitologia…ma con la mitologia non si ragiona!”.

“Don Federico, e chi vi ha detto niente? Io non ho fiatato”.
“Allora basta. Voi compenetratevi della situazione. Questo Saturno, questo padrone, questo assoluto regnante, piglia e si vede crescere sotto gli occhi ventiquattro figli, sì, ma ventiquattro montagne. Il grande Saturno un po’ di ansia l’aveva…Dice: “A parte che pur essendo questi figli carne della mia carne mi levano il panorama, cento mani cadauno per figlio andiamo a duemilaquattrocento probabilità, salvo errori, che una mattina mi sveglio e non trovo più il regno…Qui non debbo fare come i monaci di S. Chiara, che prima subirono il furto e poi misero le porte di ferro…Insomma io mi regolo, io, figli o non figli, mi premunisco e chi si è visto si è visto”. 

Perciò li chiama, esce con loro trovando il pretesto di una scampagnata al Vesuvio e li chiude a chiave nel Tartaro”.
“Come sarebbe?”. 
“I sotterranei, le profondità”.
“L’inferno?”.
“Una specie, ma senza fuoco; una cantina, grotte, va a sapere. Dunque li mette là e pensa: sto quieto, finalmente, sto sicuro? Sì, aveva fatto i conti senza Rea, la moglie: quella l’indomani stesso, lui era ancora, fra veglia e sonno, gli dice tutta contenta: “Guarda, maestà, guarda che c’è di nuovo…”.

Parola mia, sentite, era nato un venticinquesimo figlio! Fu il momento decisivo, per Saturno. Ormai aveva la mania di persecuzione, ormai pensava sempre al pericolo che i figli, un giorno, proclamassero la repubblica”.
“ Ma il proprio sangue…”, disse don Rosario Nepeta. “Ma queste creature erano positivamente figli suoi carnali?”.
“Quant’è brutta l’ignoranza”, replicò don Federico. “Ma se là non esistevano che Saturno e Rea, chi si poteva insinuare?” 
“Basta; che decise Saturno?”. Ebbene lui disse alla mogliera: “ fammelo vedere! E’ proprio un bel maschietto; a chi somiglia? E così dicendo…e così dicendo…”.
“Gesù, parlate!”.

“Parola d’onore, mi vengono i brividi. Se lo mangiò. La storia parla chiaro; se lo inghiottì nudo e crudo, povera anima di Dio! E quello è diventato un detto famoso che Saturno si mangiava i suoi figli…subito, appena nati, una sciacquatina e via, come lattuga romana…Brutto assassino: ecco dove ci porta l’ingordigia del potere…ecco a quale spettacolo dovette assistere quella disgraziata madre”.
Oh santo Saturno…

a cura di Giuseppe Marotta